"Metodo Yara": che cos'è e come funziona
15/08/2024

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"Metodo Yara": che cos'è e come funziona

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Profilare il Dna di diversi abitanti residenti nella zona in cui avviene un omicidio per risalire all'identità di un assassino comparandolo con le tracce trovate sul cadavere. E' il "metodo Yara", quello usato per la tredicenne scomparsa nel novembre 2010 e ritrovata morta tre mesi dopo in un campo a Chignolo d'Isola (Bergamo): allora, vennero profilati oltre 22mila Dna per arrivare all'identità del suo assassino. Caso per cui venne condannato Massimo Bossetti. Ma come funziona il "metodo Yara" e perché viene usato per alcuni delitti?

L'analisi del Dna Il "metodo Yara" si basa sull'analisi del Dna. "È un’analisi che caratterizza principalmente la sequenza delle basi azotate (adenina, timina, guanina, citosina) del Dna, importanti per distinguere un individuo dall’altro", spiega al Corriere della sera Fulvio Cruciani, professore di genetica umana e forense presso il dipartimento di biologia e biotecnologia Charles Darwin dell’Università La Sapienza di Roma. I test del Dna, sono tanti e diversi e vengono effettuati in base alle risposte che devono fornire. Quando parliamo di genetica forense, nello specifico, "si usa principalmente un tipo di test che va a indagare i cosidetti microsatelliti, corte sequenze di Dna composte da una a otto basi ripetute in tandem per un piccolo numero di volte" spiega il Corriere. Il motivo? "Esse costituiscono un motivo semplice che, sebbene occupi la stessa posizione sul Dna di tutti gli esseri umani, differisce da un individuo all’altro per il numero delle sue ripetizioni determinando un’impronta digitale univoca".

La procedura Per quanto riguarda la metodologia, si usa la Polymerase Chain Reaction (Pcr): "Questo metodo inizia con l’estrazione del Dna dal materiale organico di partenza, vale a dire dal nucleo delle cellule prelevate da sperma, bulbo dei capelli, urine, sangue, saliva, ma anche da qualsiasi parte del corpo e addirittura dalle impronte lasciate su un oggetto, il cosiddetto touch Dna" spiega Cruciani. Si continua, poi, con "la denaturazione del Dna in una soluzione tampone contenente primer, corte sequenze che riconoscono regioni specifiche del Dna da analizzare, alle quali si aggiungono basi azotate con un enzima chiamato polimerasi".

Si tratta di un procedimento lungo e non semplice: "Questi passaggi vengono ripetuti per 20-30 cicli, raddoppiando il Dna ogni volta: da quantità minime di Dna (nanogrammi), amplificate decine o centinaia di migliaia di volte, si ottengono pertanto microgrammi di Dna". Ma è un procedimento fondamentale perché, in questo modo, il Dna prelevato da una traccia organica diventa utilizzabile in laboratorio. "Piccole quantità di Dna amplificato vengono prelevate dalla soluzione Pcr e analizzate con metodiche differenti, quali l’elettroforesi (separa le molecole di Dna in base alla loro lunghezza), il sequenziamento diretto delle basi, la spettrometria di massa (distingue le molecole di Dna in base al loro peso) o utilizzando enzimi di restrizione (tagliano le molecole del Dnain punti precisi)" spiega ancora l'esperto. In questo modo, nel caso della genetica forense è possibile differenziare filamenti di Dna e confrontarli con quelli di individui diversi per valutare se il Dna rintracciato coincide con quello di un possibile sospettato.

Il margine di errore Se eseguito correttamente, il test del Dna dà risultati attendibili. Tuttavia, "un problema tecnico può insorgere quando si ha a che fare con Dna degradato o recuperato in tracce minime: in questi casi la sua precisione diminuisce", puntualizza l'esperto.
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